Una lunga notte per festeggiare la città. È questo lo spirito con cui l’Ordine degli Architetti della provincia di Messina ha organizzato la terza edizione dell’Archinotte 2013, curata dagli architetti Giuseppe Falzea, Giovanni Lazzari e dall’intero Consiglio dell’Ordine che hanno scelto come spazio dell’evento l’area dell’ex Fiera Campionaria.
Ventisette anni dedicati alla fotografia, Alessandro Mancuso, curatore della mostra «Where does the Strait end?» spiega il perché, all’interno di Archinotte, un posto d’onore spetta alla fotografia.
Perché è stata scelta anche la fotografia per l’edizione di Archinotte?
Premetto che l’idea di affiancare, agli eventi precedentemente programmati, una esposizione fotografica è degli architetti Teresa Cammara e Antonello Longo che mi hanno con entusiasmo coinvolto. Ci è sembrato “naturalmente” importante soffermarsi su questa forma d’espressione anche perché non è sufficientemente diffusa entro le frontiere dell’isola – nonostante l’abuso interrelazionale che si fa del culto dei ricordi dentro il computer o il cellulare – ed è palese che esiste un patrimonio di bravi fotografi che merita di essere meglio conosciuto.
Qual è l’identità della fotografia che emerge da «Where does the Strait end?» e quali finalità ha?
Domina la ricerca di una cultura del paesaggio, visto non come genere fotografico ma come elemento riflessivo e rappresentativo della storia dell’uomo e dei suoi comportamenti.
Una collettiva di fotografia può essere infatti un modo per confrontarsi con altri in un’operazione esclusivamente “culturale” o anche, e molto spesso, può essere un sistema utilizzato per raccogliere immagini e idee in maniera semplice. E proprio con questo fine ho richiesto a colleghi e amici che si occupano di fotografia di realizzare tre immagini ciascuno, o riscoprirle dai propri archivi, con l’obiettivo di una mostra leggera, “antifondamentalisti”, cosciente di non poter ribattere col fotografo-intellettuale che per anni, e a personale giudizio, senza risultati concreti, si è chiuso in spazi fisici e mentali di purismi inesistenti.
Perché il paesaggio dello Stretto è il comune denominatore della mostra?
Perché non solo lo Stretto di Messina è sempre stato luogo dove allenare inquadrature e pensieri ma anche perché è spunto per ricollegamenti con la lunga tradizione pittorica del paesaggio, in particolar modo riguardante la Falce, presente in tante vedute a volo d’uccello, soprattutto secentesche. Un progetto che vuole dare dello Stretto l’immagine multisfaccettata che ha e l’altrettanta caleidoscopica visione che riflette nella retina di ogni spettatore e che, da Omero a D’Arrigo a noi, continua a essere metafora, prototipo, leggenda. Una mostra dal fascino discreto, lontanissima da certi rigorismi a corrente alternata, fatta di una Fotografia che invita a guardare e scoprire il mondo che ci circonda.
Quali criteri ha utilizzato per selezionare i fotografi?
Sono volutamente rimasto distante, per la scelta delle immagini, da certe ampollose proposte per un pubblico salonistico, sempre appesantite di quelle ritualità che eludono il confronto con la contingenza del quotidiano e che si rivelano alla fine prevalentemente conservative.
Ho riunito sia figure emergenti che “classici” del paesaggio peloritano, come Enrico Borrometi, Giangabriele Fiorentino e Mimmo Irrera; non è presente purtroppo Giulio Conti, venuto a mancare nell’agosto del 2012. Ma questi dieci fotografi, selezionati con l’idea di un crocevia grammaticale, non sono che la punta di un iceberg.
Come spiega il fatto che a Messina non esiste una vera e propria “scuola” della fotografia?
Lo si deve senz’altro attribuire all’assenza di reti costituite, di scuole per l’insegnamento della fotografia e, elemento che mai dovrebbe mancare, di un controllo della qualità delle stesse.
L’insegnamento della fotografia dovrebbe infatti avere un ruolo di primaria importanza per la scena emergente, senza necessariamente puntare a istituzioni sacre come la Scuola di Düsseldorf, perché catalizza, più di qualsiasi altra tecnica espressiva, le nuove generazioni.
Perché l’arte fotografica a Messina, al contrario di Palermo e Catania, per citare soltanto la Sicilia, è stata sempre emarginata?
Essenzialmente per una mancanza di riconoscimento a livello istituzionale, visto il poco interesse da parte delle amministrazioni a valorizzarla. Attualmente non esiste un solo spazio pubblico consacrato alla fotografia e nemmeno uno che abbia al suo interno una sezione a questa disciplina dedicata o che lo preveda in futuro! La sezione fotografia non è contemplata neanche nelle due gallerie “Lucio Barbera” e “GAMM”, per non citare il Museo Regionale; come se in Sicilia non avessimo avuto fotografi del calibro e dell’interesse di Giuseppe Bruno, Filippo Cianciàfara Tasca di Cutò, Eugenio Interguglielmi, Ledru Mauro, Nicola Scafidi, passando da Luigi Capuana e Giovanni Verga, fino a Letizia Battaglia, Giulio Conti, Danilo Dolci, Enzo Sellerio, Giuseppe Leone, Franco Carlisi.
Un breve tentativo, anche se con approccio amatoriale, è stato marginalmente ma valorosamente compiuto, almeno nella fase iniziale della sua meteorica vita, dall’associazione Orientale Sicula Settepuntoarte che generosamente ha tentato di far ripartire l’arte locale un po’ come riuscì, negli anni Cinquanta, all’OSPE; ma la fotografia, nel secondo caso perché non ancora significativamente assimilata in Sicilia come forma d’espressione artistica, nel primo, a mio giudizio, per la mancanza di specifica competenza, è stata alambiccata in forma di solo diletto.
Sembra una nota polemica…
Diciamo che non amo chi cerca di ottenere una fugace visibilità di circostanza. Occorre studiare, occorre sacrificio, diligenza, rigore. Il pericolo per i principianti è sempre l’abbaglio di avere a portata di mano il nullaosta per superare in tempi brevi la fase di formazione e sbarcare nelle terre dell’Arte.
Come crede che si potrebbe fare per meglio diffondere, in termini qualitativi, l’esperienza fotografica?
Ciò che manca è il luogo dove confrontarsi e crescere insieme: personalmente opterei per creare una rete di collaborazione tra associazioni di categoria, gruppi o club fotografici, istituzioni scientifiche e artistiche a livello cittadino prima e regionale poi, che possano operare in favore di una pianificazione concordata per quanto riguarda sia progetti espositivi, ma soprattutto la didattica, da rendere accessibile a un pubblico diversificato per cultura ed età; a tale scopo si potrebbero attivare una serie di convenzioni con altre importanti istituzioni di riferimento nazionale. C’è da dire peraltro che non esistono laboratori didattici per l’età scolare …
Torniamo a “Where does the Strait end?” Perché questo titolo e perché non in lingua italiana?
L’idea m’è venuta proprio da questa domanda che i turisti stranieri delle grandi navi da crociera fanno all’amica Katia Giannetto, Storico dell’Arte e Guida Turistica Abilitata. Succede infatti che, all’attracco dei giganti d’acciaio nel nostro porto, viene comunicato a bordo l’ingresso nello Stretto di Messina, luogo evidentemente non presente nell’immaginario dell’ospite straniero; da qui la domanda che risulta spontanea rivolta alla guida turistica: dove finisce questo Stretto dentro cui siamo entrati? Oppure, più elementarmente, che cosa è lo Stretto? E così, lasciando libertà totale ai dieci fotografi radunati sul modo di interpretare le tracce che danno a questo spazio fatto di acque e terre e diventato Luogo per noi Messinesi – che quotidianamente o eccezionalmente, ma spesso disattentamente, ne godiamo – è nato questo progetto.
Cosa consiglia a chi vuole occuparsi di fotografia?
Di studiare la storia dell’arte perché non è ammissibile alcuna forma d’omertà culturale da parte della fotografia.
L’ultima domanda, per concludere: cosa desidera da fotografo?
Un centro per la Fotografia a Messina, di studio, d’archiviazione, di formazione, strumento indispensabile per inserire la nostra città in un circuito internazionale; e che le gallerie “d’arte” sopravvissute – e quelle che avranno la forza di rinascere – comincino a trattare la fotografia.
È vero che manca molto ma il lamento continuo della Città rischia di diventare un alibi quando potrebbe invece trasformarsi in un sana schizofrenia.
I fotografi in mostra: Carla Bonomo, Enrico Borrometi, Peppe D’Urso, Giangabriele Fiorentino, Tullio Foti, Mimmo Irrera, Antonella Mangano, Rocco Papandrea, Sandro Messina, Silvio Ruvolo.