Tratto dalla Nota dell’editore pubblicata nel libro di Andrea Italiano (foto sopra), Salvatore De Pasquale da Messina. Prima ricognizione critica delle opere, Venaria Reale 2022
L’idea di questa ricognizione critica delle opere di Salvatore De Pasquale parte dall’avvio di un necessario lavoro di riordino e sistemazione dell’archivio del fotografo/editore, ricognizione con cui si è potuto raccogliere e riorganizzare, tra migliaia, alcuni diacolor realizzati a metà degli anni Novanta in occasione della campagna fotografica per il catalogo della mostra Gli anni dimenticati. Pittori a Messina tra Otto e Novecento.
Ne sono emerse interessanti indicazioni per tentare – in un ambiente editoriale a volte mestamente confuso come quello della pittura peloritana tra Otto e Novecento – di intraprendere una circumnavigazione della Sicilia che si inaugura con due uscite contemporanee: Salvatore De Pasquale da Messina. Prima ricognizione critica delle opere (Andrea Italiano) e Un agricoltore assai smozzicato. Formazione fiorentina e residenza siciliana di Libero Elio Romano (Vittorio Ugo Vicari).
Circuitus siciliæ, questo il titolo della collana, intende occuparsi di artisti siciliani, o stabilmente attivi in Sicilia, operanti nell’arco temporale che dalla proclamazione del Regno d’Italia (1861) arriva all’epilogo della cosiddetta Età dell’Oro (1950-1973).
Si è partiti dalle fotografie archiviate per dare l’input all’autore del libro (spunto raccolto con entusiasmo), su quella direttrice auspicata già nel 1888 dal British journal of photography, ovvero la creazione di grandi archivi della fotografia, nella certezza che sarebbero diventati un tassello prezioso per rappresentare – e interpretare – anche gli avvenimenti futuri.
Le cose poi andarono come andarono. La diffusione della fotografia amatoriale legata alla semplificazione della tecnica ha portato con sé una graduale involuzione della qualità tanto estetica quanto contenutistica, banalizzando l’atto della ripresa fotografica, ma è pur vero che gli archivi oggi si presentano più che mai [1] come un terreno di scavi ove «i reperti affiorano come la vita li ha lasciati e il tempo li ha stratificati […]» [2].
I “reperti riaffiorati” di Salvatore De Pasquale al momento, oltre che essere una testimonianza tangibile del suo modo di lavorare, oggetto di per sé affascinante, risultano sfortunatamente mutili; il pittore purtroppo non ebbe eredi che verosimilmente avrebbero potuto procedere a una ricognizione e riunificazione delle opere negli anni immediatamente successivi alla sua morte. L’architetto Giulio Romano, figlio del pittore Adolfo, nel corposo dattiloscritto A un secolo dal terremoto. Fatti inediti di cento anni di vita messinese (datato 3 gennaio 2008), mai pubblicato [3], scriveva:
Noi siamo i figli di quei Messinesi sopravvissuti e ci è stata data la possibilità di raccontare, ma molti sono spariti senza lasciare eredi. Ad alcuni di loro vogliamo dedicare qualche pagina. Non hanno lasciato nessuno, ma hanno lasciato la loro memoria a noi che li abbiamo conosciuti.
Vorremmo parlare di un artista, un pittore, che ispirava simpatia solo a guardarlo: Salvatore De Pasquale. Una figura piccola, esile, con la classica barbetta e il papillon dell’artista, era un impenitente scapolo pieno di verve e d’umanità.
Professionalmente era sempre pronto a provare qualunque tecnica espressiva riuscendovi perfettamente.
Una volta partì per l’India e non se ne seppe più niente per oltre un anno.
Al suo ritorno portò delle statuette in uno strano materiale, simile all’avorio, ma che avorio non era, era invece una specie di stucco durissimo, di cui non volle mai rivelare la formula e che aveva imparato a comporre e lavorare in India.
Un’altra volta ebbe l’incarico dall’ing. Trischitta e dal prof. Bartolomeo, proprietari del Teatro Peloro, di decorare le quattordici lunette dei sovrapporta della sala d’ingresso, con pitture murali, rappresentanti le nove Muse più la decima (il cinema) e quattro allegorie. Sollecitato più volte dal costruttore, il De Pasquale rimandava sempre, arrivando al punto di farsi minacciare dai committenti di inadempienza di contratto con tutte le conseguenze del caso. Si arrivò così fino al giorno prima dell’inaugurazione.
Verso le quattro del pomeriggio, mentre fervevano gli ultimi ritocchi, l’ing. Trischitta sentì bussare alla staccionata del cantiere. C’era De Pasquale che con l’aria più ingenua di questo mondo invitava il costruttore a fornirgli la mano d’opera necessaria a scaricare da un carretto tredici lunette dipinte su tavola perfettamente finite.
È facile immaginare lo stupore dei presenti. Il dott. Bartolomeo, prontamente avvisato, si precipitò al teatro e chiese spiegazioni dell’accaduto. De Pasquale, serafico, rispose che non avrebbe mai lavorato tra la confusione del cantiere e poi aggiunse: «Se le avessi fatte qui me le avrebbero ‘nchiappate’»
Mancava, però la quattordicesima che De Pasquale non fece mai, ma i figli dell’ing. Trischitta, Santino e Franco, non si preoccuparono minimamente. Prendendo a modello le altre lunette inventarono un Amore e Psiche dipingendolo ‘a quattro mani’ così perfetto che mai nessuno seppe che fosse falso.
Verso la fine degli anni Cinquanta il teatro fu ceduto a Demetrio Flachi e nel ’59 fu demolito per far posto all’attuale palazzo del Toro. Le lunette furono recuperate intatte. L’ultima volta le ho viste nella bottega di un antiquario.
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[1]. Dal nuovo “Catalogo generale dei Beni culturali” in cui il Ministero sta rendendo consultabili le schede dei beni conferite al SIGECweb alla intelligenza artificiale sempre più raffinata di Google reverse image search.
[2]. F. Valenti, Riflessioni sulla natura e struttura degli archivi, in «Rassegna degli Archivi di Stato», XLI, Roma 1981, p. 88.
[3]. Alcune parti inerenti il manoscritto, per lo più riguardanti l’architettura della Messina post terremoto, sono state trascritte in G. Romano, 200. I palazzi della grande ricostruzione di Messina. La cultura, i progettisti e le imprese protagoniste, Messina 2013.
Alessandro Mancuso