Notes from Nimjat
Il continente africano, nella realtà comune, è il mondo bello e patinato delle riviste e dei documentari in stile National Geographic, con gli animali della foresta pluviale del Congo, o della savana di Serengeti o del Sahara turistico di Marocco e Tunisia, dove il trekking in cammello (o ancora peggio a bordo di poderosi fuoristrada) sulle dune, rossastre e sinuose di Erg Chebbi, delinea al viaggiatore limpidi e saturi cieli blu.
Dall’altra parte ci si riferisce all’idea di Africa che i media periodicamente ci presentano, che domina il discorso pubblico e l’immaginario collettivo; un’immagine spesso appiattita sui concetti di povertà, guerra, carestie, sottosviluppo, migrazioni post-coloniali: idee semplicistiche, incapaci di cogliere le enormi diversità racchiuse all’interno di quel continente; spesso una visione segnata da pregiudizi storicizzati, costruzioni ideologiche sprezzanti o paternalistiche, semplice ignoranza.
Catapultato nella capitale mauritana Nouakchott e poi prelevato e accompagnato da un fixer sono arrivato nel villaggio di Nimjat che, alla vista delle tende montate a mano tra le dune, sembra un campo profughi ma che, in realtà, si è sviluppato a ventaglio dal luogo di sepoltura del marabout Cheikh Saad Bouh (1848-1917), che qui riposa accanto ai suoi parenti, in un semplicissimo mausoleo imbiancato.
Anche grazie a una tempesta di sabbia (assai comune da quelle parti) che ha prolungato il mio soggiorno ho avuto la possibilità di ritrovare quel lavoro del “fotoreporter puro” oramai venuto meno per il cambiare dei tempi stretti dettati dai giornali: gli editori che una volta ti inviavano in giro per settimane, anche mesi, adesso ti chiedono lavori in tre, quattro giornate, ma un fotografo nei primi giorni non dovrebbe prendere neanche la fotocamera in mano per poter interagire con le persone con cui lavorare, dovrebbe prima farsi accettare.
Nimjat è luogo di religione con un sistema radicato di caste: qui gli arabi li riconosci da lontano, con i loro magnifici boubous azzurri che si gonfiano come vele e fluttuano nel vento caldo. Le donne stanno acquattate nell’ombra delle tende e alla mia visita, resa possibile esclusivamente perché accompagnato da un capo spirituale, mi osservano come creature del sottosuolo, con gli occhi intrisi di una pacatezza rassegnata di chi non sceglie, di chi non esiste, di chi non sa cosa c’è oltre le centinaia di chilometri di deserto che separano Nimjat da tutto, perché qui non ci sono recinzioni, il nulla è il muro invalicabile.
Eppure non è raro sentire che “la vera libertà è quella del paradiso” dimostrando il radicamento profondo della subalternità nel contesto culturale mauritano.