Città di Rometta (comunemente detta Rometta superiore), Messina.
Rametta, questa l’antica denominazione del centro (nome di probabile origine bizantina), ultima resistenza all’assalto mussulmano in Sicilia (cedette soltanto dopo due anni d’assedio nell’anno 965), assunse l’attuale nome nel 1562 grazie a Francesco Maurolico.
Da una dominazione all’altra, abbiamo avuto la Rometta normanna, quella sveva, l’angioina e quella aragonese fino ad arrivare, tra compravendite, privilegi, concessioni e privatizzazioni, alla data del 1535 (anno della visita di Carlo V a Messina) in cui immaginiamo Rometta in fermento tanto quanto il capoluogo peloritano. La ragione? Rometta, pur essendo decentrata rispetto a Messina, è posta su una rupe-crocevia tra i porti dell’attuale capoluogo e quello di Milazzo.
Ma proprio grazie a questa caratteristica di terra solcata frequentemente, gli occhi dei suoi artisti e artigiani apprendono le linee culturali dell’intera penisola. E tra questi artigiani sono da ricercare gli autori di alcune opere conservate all’interno della chiesa di Santa Maria Assunta (la chiesa madre), più volte ricostruita (inserendo parti di altre chiese distrutte in maniera irreparabile) a seguito dei sismi del 1693, del 1783 e del 1908.
Raggiunta la zona absidale, dietro l’altare maggiore, un coro ligneo di raccapricciante fattura lascia sorpresi tanto è maestoso; la curiosità dello sguardo si concentra su strepitose figure di sfingi dalle mammelle pendule, erotomani arpie, assurde cariatidi, grotteschi mascheroni, surreali teste vestite da elmi torreggianti. Tali e tante figure, a volte ghignanti, esagerate e bizzarre, dagli zigomi esasperati, da corpi multiformi in cui teste d’uomo si fondono con busti armonici di donne i cui spregiudicati seni nudi sfidano il luogo sacro che li ospita, eroiche e orrende, nobili e maledette, degne di quel Satana tanto solenne e affascinate da indurre in tentazione.
Ricordando che il coro è la zona dell’edificio destinata ai cantori o ai membri della comunità che celebrano la funzione religiosa, e che si trova normalmente collocato, dal Rinascimento in poi, nella zona absidale, disposto attorno o ai lati dell’altare maggiore o dietro quest’ultimo, come nel caso nostro, il manufatto in questione è costituito al suo interno da ventuno posti a sedere, detti stalli, riservati ai sacerdoti.
La multiforme realizzazione accuratamente levigata è realizzata con legno monocromo al naturale (anche se nel nostro caso in effetti sono presenti brani intarsiati realizzati con altre essenze) che accresce l’atmosfera di silenzio ossequioso, rafforzata da certe tipologie facciali, con barbe descritte squisitamente.
Trova qui la cultura (e non solo scultura) lignea, tanto di moda da qualche anno e oggetto finalmente di studi scientifici, un risultato straordinario, merito del certosino lavoro di artisti-artigiani non necessariamente facenti parte di rinomate botteghe lignarie, ma che in questo tempio sono stati talmente abili da orchestrare un macchinoso progetto architettonico (parlare di premeditazione di una ricerca iconografica potrebbe esser esagerato) aiutato certamente da una qualche forma di mecenatismo locale, laddove l’uso di marmi, o di più costosi metalli preziosi, sarebbe risultato utopistico.